Incipit (Marco Malvaldi)
"Quello nella foto non sono io.
Se mi guardo allo specchio, ho un 'espressione: può essere sorridente, vagamente misteriosa, del tipo "tu non sai quante cose potrebbero succedere se vieni con me stasera”, oppure una faccia da cattivo, di quelli che con una sola alzata di sopracciglio spaventano un rapinatore e gli fanno chiedere pietà. Quello nello specchio sono io, mi riconosco.
Oddio, a dire la verità mi riconosco anche nelle foto: solo che non vorrei. E mi chiedo tutte le volte se quel tipo con la faccia di chi ha appena realizzato che sta per vomitare, o con la schiena curva, o con i vestiti tutti avvitati intorno al corpo… se per caso quello non sono davvero io. Quale dei due sia più vicino a me, la persona sorridente e degna di fiducia che vedo nello specchio o quell'immagine bidimensionale che sembra che stia smaltendo la sbornia sulla seggiolina di un pronto soccorso.
"Signora, guardi me per favore", disse il tipo in modo non troppo gentile, e mia madre obbedì, alzando il mento e cercando di risultare più dignitosa possibile. Sforzo inutile, o meglio, superfluo. Mia madre in foto è sempre venuta bene. Sempre con la faccia che ha veramente, col sorriso appena accennato e gli occhi chiari, aperti, franchi. Un contrasto talmente evidente che, quando gli estranei guardano le foto di famiglia, giungono rapidamente alla conclusione che io sia stato adottato, portato via con amore da un orfanotrofio ceceno che purtroppo mi ha segnato per tutto il resto dell'esistenza.
E invece il figlio adottato è quell'altro. Si, c'è davvero un figlio adottivo nella mia famiglia: o meglio, una figlia. Che però, quando è arrivato da noi, eravamo convinti che fosse un maschio. E' una storia lunga, ora non è il momento di raccontarla. Stavo parlando delle mie foto, e delle foto di mamma. Mio padre, l'Onorevole Arnaldo Buzzatto - non sto a dirvi di quale partito sia, in vita sua ne ha cambiati cinque o sei, sceglietene uno e non ci andrete troppo distanti - per prendere in giro mia madre a volte le diceva che sarebbe venuta bene anche nelle foto segnaletiche.
“Profilo, signora, per favore”, disse l'uomo, sempre con tono scocciato. Mia madre si voltò, sempre a mento in su.
Nella situazione in cui ci trovavamo, non era il caso di dire ad alta voce i miei pensieri. Perché, sì, quelle che ci stavano facendo erano veramente delle foto segnaletiche.
Ho sempre pensato che se fossi stato arrestato, per una qualsiasi ragione, la cosa difficile sarebbe stato dirlo a mia madre. Fortunatamente, il problema non si pone.
Perché siamo stati arrestati insieme.
Insieme, nello stesso posto, dalle stesse persone.
Ma non per lo stesso reato, questo ci tengo a dirlo. Sarebbe troppo imbarazzante.
Anche se non mi è chiaro per chi dei due."
Elaborazione (L&A)
Sì, proprio imbarazzante, perché avremmo mostrato entrambi la fragilità tanto demonizzata nella nostra famiglia. Quella che sono sempre stato costretto a nascondere e a mettere da parte.
“È il suo turno. Prego, mi segua”, mi fa un agente. Ed ecco che ora sono io quello a dover essere fotografato. Mi sembra di star fluttuando nell’aria o di star vivendo una sorta di maledizione. Devo ancora digerire quello che mi è accaduto e ciò che ho visto.
Finire al fresco è un’opzione che non è mai stata tanto lontana dall’immaginario della mia vita futura. L’unico dispiacere riguarda il fatto che sta accadendo un po’ troppo in fretta, 25 anni è un po’ troppo presto per i miei gusti. Per questo non sono sorpreso più di troppo: rubare significa dover considerare questo rischio ogni secondo della propria vita. Soprattutto quando non si è da soli. Perché un reato compiuto per conto proprio può solo urlare nella nostra testa, mentre uno condiviso con coscienze fuori di noi comincia presto a sussurrare alla mente di tanti. Ed un semplice mormorio si trasforma a velocità esponenziale in tempesta. Bufera che ci intrappola, ci incatena, ci spegne e ci devasta. È sempre difficile fidarsi delle persone, ma tra ladri anche un solo sorriso può andare di traverso. In quel caso è scacco matto e le spie sono dappertutto.
“Deve guardare dritto davanti a lei. Si sbrighi, non ho tutto il giorno”. Ancora una volta, ho scollegato la percezione fisica per perdermi nella matassa dei pensieri scarabocchiati nel nulla. Ma non riesco a togliermi di testa quell’immagine. Mia madre davanti a me. I miei “colleghi” sulla via di fuga ed io congelato di fronte al macabro dell’immagine sensibile materializzatasi in pochi secondi alla mia vista. Uno strumento dal funzionamento semplice, piccolo macchinario freddo e potenzialmente innocuo quanto letale: una pistola. Ne ho impugnate di varie e ci sono abituato, ma non se è nelle mani di mia madre. Stretta tra le dita di mia madre. Indirizzata da mia madre verso una ragazza spaventata, tremante, dotata di gocce di lacrime ai limiti dei bulbi oculari. Una donna che nella mia memoria dimora in una posizione indegna per l’essere umano. Stesa a terra, coccolata da flutti di sangue color porpora fuoriuscenti dalla gola, come se chi ha sparato le avesse imposto il silenzio e le avesse negato il dono della parola. E quella azione era stata compiuta da mia madre. Mia madre.
L’avvocato più selettivo, perspicace, carismatico, schietto e sprezzante della città. La madre più severa, franca, rigorosa, onesta, salda e dura che qualcuno possa immaginare. O almeno che io abbia mai potuto esperire. Razionale, fredda, rigorosa, oggettiva. Mia madre aveva appena sparato ad una ragazza indifesa.
“Mi dia ascolto, per Dio! Si giri!”, ma io sono ancora lì, in quel vicolo nascosto. Ed ero fermo a quei miseri istanti anche quando mi avevano messo le manette. Lo sono adesso che mi trasportano nella cella senza che io opponga resistenza. Un ultimo sguardo verso mia madre, una donna che ho scoperto essermi sempre stata estranea. Nell’incrocio di sguardi io, spaesato, la interrogo sulla sua appena discoperta esistenza ipocrita, mentre nei suoi occhi la sua integrità secolare si sfalda e perisce.
La realtà mi sembra solo un gioco di fotogrammi animati da una divinità maligna cartesiana, ma per me non c’è nessuna dimostrazione dell’esistenza di Dio che tenga per farmi cambiare idea. Non sono altro che una marionetta illusa e tradita. Mia madre? Potevo aspettarmelo da chiunque, ma categoricamente non da lei. Tra tutte le persone che hanno preso parte alla mia vita, lei era l’unica colonna di marmo rimasta in piedi. Ed ora che è crollata lei, non è rimasto più nessuno. Un castello di carte sparpagliato su di un pavimento scivoloso laccato di cera.
Perché? Qual è la motivazione che ha portato mia madre a compiere questa azione? Non avrebbe potuto evitarlo? Dove sono finiti tutti quegli insegnamenti sull’integrità morale e sulla forza d’animo? La giustizia ed il senso di dovere nei confronti della comunità? Il rispetto della legge e di qualsiasi tipo di regola istituzionale? Dov’è il rigore che mi è sempre stato imposto e che ho sempre visto nella mia figura materna? Domande appartenenti ad un circolo vizioso che mi allontanano sempre di più dalla risposta razionale, ammesso che questa esista.
La cauzione è fuori discussione, mio padre non la vuole pagare per questioni “burocratiche ed amministrative”. Un codardo ignavo di prima categoria. Lo è sempre stato ed adesso sento di avere il diritto di ammetterlo senza propinare delle scuse secondarie. Solo ora mi rendo conto di quanto abbiano influito i miei genitori nel mio sprezzo del pericolo e odio verso le imposizioni, come un vero e proprio reazionario nei confronti delle istituzioni superiori.
Non so che fine farò, ma ora come ora ho bisogno di tempo.
“Figlio,
ho riflettuto per molto prima di scriverti. È giusto che tu comprenda. Non volevo che tu mi vedessi in quelle condizioni ma così è stato e non possiamo cambiare il passato. In effetti, non siamo in grado di correggerlo, perché ogni tentativo sarebbe vano e controproducente. Niente formalismi o linguaggio forbito per questa volta, ormai le maschere son cadute da tempo ed è corretto che non vengano più ricollocate sui volti. Ora siamo tu ed io, come non lo siamo mai stati. Nudi e deboli come non ci siamo mai concessi di mostrarci.
Quella che hai visto e che sicuro ricordi ero veramente io. A mia discolpa... no, non voglio esprimermi con questi termini. Ti spiego com’è andata e valuterai tu le mie azioni.
Le ho sparato. Non volevo più ascoltarla. Era entrata nella mia testa con la violenza e non si dimostrava desiderante di uscire, anzi. Aveva imposto le sue radici nelle mie carni e si era avvinghiata ai miei capisaldi per distruggerli. Voleva indietro Andrea. Era la mamma di mia figlia, di tua sorella. Adottiva, sì è vero. Ma pur sempre mia figlia, tua sorella.
Giudica tu stesso. Dimmi che ho fatto bene, perché lo sai anche tu che è così.
Mamma”
Sono passati anni ed ancora l’immagine vive impressa nella mia mente. La lettera che mi ha inviato ha cambiato poco la mia opinione. Ero ancora in grado di vedere solo l’ipocrisia di una donna turbata dal suo stesso esame di coscienza andato fallito.
È mutato tutto solo quando ho scoperto che quella stessa donna che chiamo “madre” ha deciso di togliersi la vita. Oppressa dalle voci indistinte raggomitolate nelle sue membra. Tormentata dal concetto di giusto e sbagliato, si è resa conto di aver fatto un errore nei suoi calcoli. Non aveva lasciato ad Andrea la possibilità di selezionare tra i genitori adottivi e quelli naturali. La sua libera scelta sarebbe rientrata nelle dinamiche del concetto di giustizia. Ma mia madre si era persa nel sublime che la alimentava, uno struggimento a cui non ha saputo far fronte e che l’ha fatta cedere per la prima volta nella sua vita. Così, dopo aver scoperto di aver errato, è stata sopraffatta dal rimorso e dal senso di colpa. L’unica risposta razionale alle condizioni psicologiche ristrette in cui doveva vivere è stata quella di propendere di nuovo per la giustizia, questa volta non più apparente. Il colpevole doveva essere punito, essere mandato fuori gioco, doveva sparire.
È lì che ho capito. Lo specchio rappresenta la nostra immagine dinamica, è anima attiva ed interiorità manifesta che riconduce alla dignità umana. La foto è l’astratto in senso hegeliano della realtà, attimo estrapolato e congelato del suo singolo, anima passiva che ha l’effetto di oggettificare l’essere. Prima vedevo lo specchio come rappresentazione di un presente attuale e cinetico che ero in grado di cambiare, plasmare, modificare o almeno così pensavo. Credevo in una prospettiva futura di miglioramento, la speranza in un futuro migliore ed ipotetico che viveva solo nella mia testa. La foto era il passato di cui mi vergognavo, emozioni e sensazioni infantili da nascondere e mettere da parte, appartenenti ad un passato che vogliamo cestinare. Ma in questo momento, penso tutt’altro. Lo specchio rimane simulacro del presente, ma questo adesso si trova a fondamento di un futuro reale, che si conquista giorno per giorno. La foto continua ad essere passato, ma è anche il punto di partenza per costruire quello che ho ora.
Mia madre non potrà più essere bella allo specchio, ma in foto lo sarà per sempre. Ed il sopracitato imbarazzo di mostrare la propria fragilità non è più negativo. Ora lo vado a ricercare in ogni persona che incontro e, se manca, sono io stesso a crearlo.