L’articolo di oggi tratta di una delle più importanti pittrici italiane e appartenente al periodo barocco: Artemisia Gentileschi.
Vita
Artemisia Lomi Gentileschi nasce a Roma l’8 Luglio 1593 e dopo la morte della madre, avvenuta nel 1605, comincia a dipingere grazie agli insegnamenti di suo padre, il pittore pisano Orazio Gentileschi. Artemisia dimostra subito il suo talento precoce affianco al padre, che lei cerca di emulare essendone affascinata. Inoltre, l’unico modo che avesse per crescere dal punto di vista artistico era a casa, dato che, essendo donna, non poteva prendere parte a nessuna bottega d’arte.
La sua fortuna è stata quella di essere cresciuta a Roma, città centro artistico di tutta Europa, ricca di spunti artistici e immersa nell’arte barocca. Roma, infatti, dopo la Riforma Cattolica, è rinata grazie ai vari interventi urbanistici e restauri di numerose chiese. Inoltre, Artemisia è stata influenzata a livello artistico da Caravaggio, il quale era amico e collega di Orazio.
Presto la giovane Artemisia passa dall’essere alunna del padre, a diventare un’aiutante intervenendo nelle sue pitture e poi a realizzare autonomamente delle opere mozzafiato. La sua prima opera ufficiale è “Susanna e i vecchioni” del 1610, lei aveva solo 17 anni.
La sua vita è cambiata totalmente nel 1911 quando è stata vittima di uno stupro da parte di Agostino Tassi, amico del padre e pittore che aveva il compito di insegnare alla giovane la rappresentazione prospettica. In quegli anni la situazione era solita risolversi attraverso il matrimonio, cosa che Agostino aveva promesso ad Artemisia. La promessa, però, non poteva essere mantenuta dato che il pittore era già sposato. Una volta appresa questa notizia, Artemisia è ricorsa subito ad un lungo processo che, dopo svariate umiliazioni della ragazza, ha confermato la colpevolezza di Agostino. La pittrice ha dovuto anche subire la tortura dei pollici, i quali uno contro l’altro venivano schiacciati da un anello di metallo sempre più stretto, che avrebbe potuto mettere a rischio la sua carriera. È in questi anni che dipinge la sua opera più celebre: “Giuditta che decapita Oloferne”.
Nel 1614 si trasferisce a Firenze seguendo il marito pittore Pierantonio Stiattesi, dove viene accolta nell’Accademia delle Arti del Disegno. È così che per la prima volta una donna riesce ad accedere ad un “privilegio” simile. In questo periodo conosce personaggi illustri come Galileo Galilei e il nipote di Michelangelo Buonarroti che le procura vari clienti.
Qui realizza soprattutto opere che hanno come tema principale donne coraggiose, determinate e dedite al sacrificio come le eroine bibliche. Due esempi sono “La conversione della Maddalena” (1615-1616) e “Giuditta con la sua ancella” (1625-1627), entrambe conservate a Palazzo Pitti.
Torna a Roma nel 1621, poi si trasferisce a Venezia, Londra e infine definitivamente a Napoli. Proprio qui realizza tre tele per la cattedrale di Pozzuoli al Rione Terra: “San Gennaro nell'anfiteatro di Pozzuoli”, “Adorazione dei Magi” e “Santi Procolo e Nicea”. Sono sue anche le opere “Nascita di San Giovanni Battista al Prado” e “Autoritratto in veste di Pittura”.
Muore a Napoli nel 1653.
Giuditta che decapita Oloferne
“Giuditta che decapita Oloferne” rappresenta un episodio della Bibbia. La storia di Giuditta e Oloferne è narrata nel Libro di Giuditta: la donna, grazie alla propria abilità, riuscì a far ubriacare e successivamente uccidere il generale degli Assiri, Oloferne. Artemisia rappresenta l’esatto istante in cui Giuditta sta decapitando Oloferne con la sua stessa spada, mentre l’ancella l’assiste. La scena è molto realistica anche nei minimi particolari, come il colore del sangue, gli abiti e le espressioni. Il volto di Giuditta ha uno sguardo sicuro e non prova alcun rimorso per ciò che sta facendo, quasi divertita dall’omicidio che sta effettuando. Intanto Oloferne è disperato, cerca di liberarsi come può dall’aggressione, aggrappandosi anche alla veste dell’ancella, ma è già troppo tardi; c’è già molto sangue che sgorga dalla ferita e che si sta riversando sul materasso su cui si era addormentato, ubriaco.
Si tratta di una rappresentazione di Oloferne e Giuditta molto violenta: la pittrice utilizza dei colori forti, che conferiscono alla scena un’atmosfera molto aggressiva. L’unica fonte di luce proviene dalla sinistra della scena (probabilmente una candela), che ci permette di assistere alla morte di Oloferne, facendo scivolare in secondo piano i dettagli superflui. Nell’oscurità dello sfondo spiccano violentemente il blu acceso dei vestiti di Giuditta che va in netto contrasto con il pallore della sua pelle e anche un rosso scuro utilizzato per l’abbigliamento dell’ancella.
Si potrebbe scorgere l'influenza di Caravaggio nell'opera di Artemisia: il dipinto evoca non solo nella crudezza della decapitazione, ma nella postura stessa dell'eroina biblica, la Giuditta di Caravaggio, al punto che è difficile pensare che Artemisia non abbia avuto modo di conoscere tale opera. Differentemente dal dipinto del pittore, in questo si nota la solidarietà tra Giuditta e l'ancella, che solo unite riescono a sopraffare il generale nemico. Anche questa particolarità potrebbe essere un riferimento alla storia personale della pittrice, che accusò Tullia, inquilina e punto di riferimento della ragazza, di omissione di soccorso nel momento dello stupro subìto.
Al prossimo articolo!
L(&A)
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