Le donne non hanno avuto un ruolo marginale nella rivoluzione, ma anzi hanno partecipato anche attivamente alle rivolte già a partire dalle sue prime fasi. In che modo hanno contribuito al progresso della società del tempo?
La marcia su Versailles
Ricordiamo come nell’anno 1789, quando a seguito di una situazione piuttosto delicata il re Luigi XVI era stato costretto a firmare i decreti di abolizione del feudalesimo, le donne erano state tra le prime a mettersi in marcia (5-6 Ottobre) verso Versailles per portare il sovrano a Parigi. A loro si affiancarono anche il popolo, i deputati del terzo stato, la Guardia Nazionale e l’esercito popolare di La Fayette. L'intervento femminile nella protesta derivava anche dall'aumento incessante del prezzo del pane: la crisi economica in cui riversava la Francia provocò la reazione del popolo e specialmente delle donne che frequentavano i mercati e dovevano provvedere al sostentamento della famiglia.
In questa occasione le donne partecipano con tutte le loro forze alla rivoluzione, saccheggiando le case e procurandosi armi e viveri. In modo particolare, a presentarsi di fronte a Luigi XVI per esporre le richieste del popolo furono scelte sei donne, che convinsero il sovrano ad aprire i magazzini reali per sfamare la folla ed accettare alcune richieste. Tra queste c'erano il permesso per esportare i grani, una tassazione del grano ad un prezzo onesto affinché fosse accessibile anche ai cittadini meno abbienti ed il costo massimo fisso della carne a 8 soldi a libbra.
Madame Chéret
Madame Cheret, una delle protagoniste della marcia, faceva parte della delegazione delle sei donne che furono ricevute dal re. Lei offrì una testimonianza della sua esperienza, dicendo che le loro richieste erano espressione delle mancanze, dei bisogni e dei desideri del popolo parigino: esigevano l'abbassamento del prezzo del pane e il ritorno del re e della regina a Parigi, in modo che potessero essere più vicini al loro popolo. Madame Chéret sottolineò come questo progetto, voluto dalle eroine che parteciparono alla presa della Bastiglia, avesse come scopo principale il far conoscere all'assemblea e al re:
«l'origine dei mali del popolo per il quale i più grandi monarchi non fanno niente».
Al ritorno a Parigi le donne furono accolte dalla folla come vincitrici:
«Noi cittadine, coperte dalla gloria, per ordine di sua Maestà siamo state ricondotte in carrozza nel quartiere, dove siamo state ricevute come liberatrici della capitale».
La condizione femminile a Parigi nel 1789
A questa marcia presero parte non soltanto le venditrici del mercato, ma anche donne coscienti dei loro diritti, capaci di identificare i reali centri del potere politico (come testimoniatoci dallo studioso David Garrioch). In questo periodo della storia, infatti, le donne principalmente accudivano la casa e i figli, tutto ciò che concerneva l'ambiente domestico rientrava nella loro competenza e responsabilità. Per loro il lavoro era una situazione temporanea (erano frequenti le occasioni lavorative occasionali: legate al commercio, alla moda, portatrici d’acqua, sarte, lavandaie) diversamente che per gli uomini che costituiva la loro identità personale e sociale. Dato che il genere maschile era assente dalla mattina alla sera per ragioni di lavoro, erano le donne che costruivano forti legami nella comunità locale. Il fatto che esse avessero preso parte a manifestazioni che riguardavano la loro vita quotidiana, metteva in luce quello che era il loro ruolo nella comunità e l’esigenza di rivolgersi a nuovi centri di potere come l’assemblea e il re.
La subalternità della donna
Anche con il procedere della rivoluzione le donne cercheranno di farsi spazio, ma verrà loro negata la partecipazione politica. Esempi durante le prime fasi della rivoluzione stessa sono sia con il suffragio censitario maschile che quello ancora successivo universale maschile. Si fanno comunque dei passi avanti rispetto al passato, dato che durante l’Ancien Régime erano prive di autonomia economica e patrimoniale, dipendevano in tutto e per tutto prima dal padre e poi dal marito e vivevano in una condizione di subalternità giuridica e intellettuale.
Verso la fine del ‘700 comincia il lungo processo che lentamente rovescerà il paradigma millenario dalle radici profondissime: la subalternità del genere femminile. Il filosofo che teorizzò questo concetto fu Aristotele, secondo cui esistono nature diverse (natura del ragazzo, natura dello schiavo, natura della donna, natura dell’uomo…). Quello che diversifica gli esseri umani è l’anima, le cui parti sono possedute in maniera diversa. Esempio: lo schiavo non ha tutte le parti dell’anima perché non ha la capacità di decidere/deliberare. La donna possiede l’anima, ma senza autorità, quindi ha una libertà superiore a quella dello schiavo, ma non l’autorevolezza, il potere decisionale o il comando tipico dell’uomo (il quale possiede la superiorità, perché ha l’anima pienamente sviluppata). L’uomo quindi possiede tutte le facoltà della ragione, che invece la donna possiede in minima parte.
Alla fine del ‘700 e, quindi anche durante la rivoluzione francese, si mette in moto quello che è un protagonismo femminile. Le donne sono attive, fondano club femminili (proibiti successivamente durante il terrore giacobino), partecipano alle manifestazioni, organizzano assemblee, leggono i giornali, fanno discussioni politiche e inviano petizioni, maturando una coscienza di se stesse, dei propri diritti e delle proprie libertà.
Olympe de Gouges
I passi in avanti si fanno, però sono ancora abbastanza piccoli. Una testimonianza di ciò è la definizione di “Cittadino” secondo l'Encyclopédie (alla cui stesura non collaborò nessuna donna):
“Questo titolo viene concesso alle donne, ai bambini, ai servitori soltanto in qualità di membri della famiglia di un cittadino propriamente detto; ma non sono dei veri cittadini”.
E’ così che la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino promuove l’uguaglianza degli uomini, che nella pratica vengono intesi solo come “insieme di persone di genere maschile” e non esseri umani (la teoria messa per iscritto attraverso le leggi non corrisponde immediatamente alla pratica, c'è la necessità di cambiare la mentalità di una società).
Nonostante ciò, una donna ha avuto il coraggio di farsi avanti e di parlare: si tratta di Olympe de Gouges. E’ lei che elabora, insieme ad un gruppo di donne pioniere della rivoluzione femminile, la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne - 1791), che ripropone il documento della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino evidenziando la consapevolezza maturata dei diritti del genere femminile (le donne non sono da considerarsi “invisibili”), che coincidono con gli stessi diritti degli uomini (principio della parità di genere). Anche perché, come sosteneva lei, le donne potevano essere giudicate e condannate a morte come gli uomini, ma non godevano degli stessi diritti civili e politici. Il documento si può definire come un’imitazione polemica, dato che denuncia la mancanza di libertà delle donne lasciate in disparte nella lotta verso l’uguaglianza ed insiste particolarmente sul fatto che le donne meritavano i propri diritti, in particolare nelle aree che le riguardavano direttamente, come il divorzio e il riconoscimento dei figli naturali.
Purtroppo il progetto fallisce. Appare anche paradossale la posizione che i giacobini, parte dell’Assemblea più democratica e progressista, assumono nei confronti di questo documento: Robespierre proibì le associazioni femminili, chiuse i loro club ed i loro giornali, mentre Olympe de Gouges veniva ghigliottinata (novembre 1793) «per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso» ed «essersi immischiata nelle cose della Repubblica».
Codice civile napoleonico
Il Codice civile evidenzia la necessità di instaurare una lotta a favore della parità di genere, dato che Napoleone blocca i tentativi di liberazione delle donne, restituendo grande valore alla figura del pater familias. Infatti, il Code Civil lascia un’impronta decisiva per ciò che riguarda i diritti della persona e della famiglia nel primo libro, trattando argomenti come matrimonio, divorzio, paternità, eredità, capacità di agire.
Perché parliamo di un “passo indietro”?
Prima della rivoluzione la materia della famiglia era stata regolata in Francia dal diritto canonico, ma vi erano anche i decreti del re, che vietavano di contrarre il matrimonio senza il consenso dei genitori, obbligatorio fino all’età di 30 anni per gli uomini e di 25 per le donne, prevedendo pene severissime per i contravventori.
Dobbiamo ricordare che, nel corso della rivoluzione, la Convenzione nazionale operò una profonda rivoluzione nel diritto civile, facendo della famiglia un’istituzione abbastanza democratica ed egualitaria. Infatti, aveva abolito il despotismo del pater familias e parificato su alcuni punti la posizione del marito quello della moglie (ad esempio le cause di divorzio per colpa, come l’abbandono o le ingiurie gravi, compreso l’adulterio, valevano identicamente per i due sessi). Nel 1791 le donne ebbero accesso alla maggiore età come gli uomini a 21 anni, nel 1792 il diritto di testimoniare nelle cause civili e nel 1793 godevano della stessa autorità genitoriale del padre.
Il Codice Napoleonico introdusse novità soprattutto nei riguardi della famiglia e quindi anche del ruolo della donna.
La famiglia rimaneva l’istituzione centrale della società, in quanto era legata all’educazione patriottica e democratica della gioventù. Mentre la legislazione rivoluzionaria aveva voluto fare della famiglia un’istituzione libera, per Napoleone essa doveva tornare a essere un pilastro della società e riacquistare i connotati autoritari del passato (visione gerarchica ed autoritaria).
E’ così che la famiglia disegnata dalla legislazione napoleonica ruota attorno ad una ben definita gerarchia: il padre è riconosciuto come il capo della famiglia (famiglia come una monarchia assoluta paterna, ritorna all’antico regime), amministra i beni familiari e nei confronti dei figli minori esercita la patria potestas, il suo consenso è necessario perché figlia/o possa contrarre il matrimonio.
Art. 148 – Il figlio che non è giunto all’età di venticinque anni compiuti, la figlia che non ha compiuto gli anni ventuno, non possono contrarre matrimonio senza il consenso del padre e della madre; in caso che siano discordi, il consenso del padre è sufficiente.
Art. 151 – I figli di famiglia giunti alla maggiore età, determinata dall’articolo 148, sono tenuti prima di contrarre matrimonio a chiedere con un atto rispettoso e formale il consiglio del padre e della madre loro [...].
[Il padre o chi è titolare dei suoi diritti legali può far dichiarare la nullità di un matrimonio contratto senza il suo consenso].
La donna
Più nettamente squilibrati erano i rapporti tra il capofamiglia e sua moglie. Considerata come affetta da debolezza fisica e intellettuale, la donna come figlia, madre e moglie viene sempre vista come bisognosa di protezione e sempre sottomessa ad un tutore, prima il padre e poi il marito.
Art. 212 - I coniugi hanno il dovere di reciproca fedeltà, soccorso, assistenza.
Art. 213 - Il marito è in dovere di proteggere la moglie, e la moglie di obbedire al marito.
(Sancisce con forza il principio di autorità del marito sulla moglie, nel duplice aspetto della protezione, dovuta alla superiorità, e del dovere di obbedienza da parte della moglie, ritenuta quindi inferiore).
E’ per questo motivo che i diritti civili della donna erano soggetti al controllo da parte del marito. Essa doveva seguire il marito ovunque egli avesse posto la sua residenza, se non voleva incorrere nell’accusa penalmente rilevante di abbandono. Manteneva una proprietà teorica sui propri beni, perché solo il marito aveva diritto di amministrarli; la donna non poteva venderli o ipotecarli (non poteva lasciare un’eredità) e i suoi atti erano autorizzati dal marito. In caso di disaccordo sull’educazione dei figli il parere del marito era quello prevalente.
Art. 214 – La moglie è obbligata ad abitare col marito, e a seguitarlo ovunque egli crede opportuno di stabilire la sua residenza [...].
Art. 215 – La moglie non può stare in giudizio senza l’autorizzazione del marito, quand’anche ella esercitasse pubblicamente la mercatura, o non fosse in comunione o fosse separata di beni [...].
Art. 217 – La donna, ancorché non sia in comunione e sia separata di beni, non può donare, alienare, ipotecare, acquistare, a titolo gratuito od oneroso, senza che il marito concorra nell’atto, o presti il consenso in iscritto.
(Risulta evidente che alla donna non veniva riconosciuta una piena cittadinanza civile. Erano cittadine a metà, sottoposte alla tutela del marito, inferiori dal punto di vista giuridico rispetto ai cittadini di sesso maschile)
[I successivi articoli stabiliscono che alla moglie è consentito comunque rivolgersi al giudice, che può sostituirsi al marito, dopo averlo consultato. Il giudice interviene anche quando il marito, per un qualsiasi motivo, è impossibilitato a dare le prescritte autorizzazioni].
Per quanto riguarda il divorzio, questo fu conservato, ma in forma assai limitata e con un regime molto sfavorevole alla donna. Infatti, tre soli motivi di divorzio erano ammessi (adulterio, eccessi ed ingiurie gravi), ma l’adulterio del marito era considerato motivo valido solo se accompagnato da concubinaggio, dando pubblico scandalo portandosi a casa l’amante (punito con un'ammenda). Invece, la pena per la donna adultera era la reclusione in una casa di correzione per un periodo che andava da 3 mesi a 2 anni, a discrezione del marito.
Art. 229 – Potrà il marito domandare il divorzio per causa d’adulterio della moglie.
Art. 230 – Potrà la moglie domandare il divorzio per causa d’adulterio del marito, allorché egli avrà tenuto la sua concubina nella casa comune.
Art. 233 - Il consenso scambievole e perseverante dei coniugi [...] proverà sufficientemente che la vita comune loro è insopportabile e che esiste, relativamente ai medesimi, una causa perentoria di divorzio.
[È ammesso il divorzio consensuale. Il matrimonio è da considerarsi non tanto come un sacramento, quanto un vero e proprio contratto. Questo vuol dire che può essere revocato, secondo determinate regole, se uno delle due parti contraenti lo desidera].
Fallimento del femminismo
La causa principale del quasi totale fallimento del femminismo rivoluzionario fu la ristrettezza del suo gruppo di sostenitrici: il femminismo fu e rimase l’interesse di una minoranza. La maggioranza delle donne francesi non aveva alcun interesse a un cambiamento della propria condizione sociale: la maggior parte di loro accettava la definizione di femminilità consacrata dal diciottesimo secolo. A questo proposito, il discorso fatto dalle donne di Epinal ai loro uomini è più rappresentativo di questo atteggiamento di qualsiasi manifesto femminista:
“Se la nostra forza fosse stata pari al nostro coraggio, anche noi non avremmo esitato a prendere le armi, e avremmo diviso con voi la gloria di aver conquistato la libertà. Ma erano necessarie braccia più forti delle nostre per sconfiggere i nemici della Costituzione; la nostra debolezza ci ha impedito di prendere parte a questa Rivoluzione”.
Malgrado il suo carattere di minoranza e il suo totale fallimento, il femminismo rivoluzionario non fu privo di significato, mostrando con la massima chiarezza le mutevoli fasi della Rivoluzione e rappresentando una prova inconfutabile dell’impronta socialmente conservatrice di quel sommovimento politico.
La lezione è disponibile anche su Youtube: Le donne nella rivoluzione francese - Il codice civile napoleonico
Al prossimo articolo!
L(&A)
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